Il Presidente degli Stati Uniti è anche definito “Commander in chief”, significando, in questo modo, il ruolo di “comandante supremo” delle Forze armate USA, nonché della Politica estera americana. Confermando, se mai ce ne fosse bisogno, la sua leadership assoluta.
La leadership forse è la caratteristica più importante che deve contraddistinguere chi vuole esercitare un ruolo di “comando”, sia che si tratti di un’azienda, di un’associazione, di un team sportivo. Figuriamoci di un Partito politico o di un Paese.
Secondo un sondaggio del Center for Public Affairs Research, oggi 2 democratici su 3 sono del parere che Joe Biden debba ritirare la propria candidatura alla Presidenza USA. E solo 3 su 10 ritengono che conservi le capacità mentali per svolgere un ruolo così impegnativo. E’ indubbio, quindi, che il suo stesso partito non gli riconosca più il ruolo di leader. Un’amara verità che dovrebbe certamente far riflettere l’attuale Presidente e il suo staff. La legge elettorale Usa è piuttosto articolata e molto diversa da quelle in uso, per esempio, in Europa. E’, infatti, un sistema “indiretto”, essendo il Presidente, eletto non “direttamente” dagli aventi diritti al voto (chi ha compiuto 18 anni di età), ma dai “grandi elettori”, vale a dire cittadini USA che devono essere o attivisti del Partito che vogliono rappresentare, o funzionari eletti o persone che hanno un ruolo influente nel partito. In tutto, i “Grandi Elettori” sono 538, suddivisi per ogni Stato americano (California 54, Texas 40, Florida 30, etc). Ovviamente, essendo gli Stati Uniti una democrazia (anzi, “la democrazia” per eccellenza), si suppone che i grandi elettori rappresentino gli aventi diritti al voto: un rapido conto ci dice che, su una popolazione complessiva pari a circa 340 ML di abitanti, sono circa 265/270 ML di cittadini. A livello politico le 2 forze in campo tendono ad equivalersi, avvicinandosi entrambe al 50%. Se ciò è vero, dando per acquisito che i Repubblicani sono fortemente “compatti” sul nome di Trump, mentre, come detto, circa 2/3 dei Democratici si auspica il “passo indietro” del proprio candidato, significa che oggi circa 220/225 ML (teoricamente) di cittadini americani sono “contrari” al nome di Biden.
Numeri spietati, che lasciano ben poche speranze se le cose dovessero rimanere invariate. Forse anche per questo qualche spiraglio comincia ad intravedersi, con lo stesso Presidente Biden che ha dichiarato che, nel caso il “consiglio” arrivasse dal proprio staff medico, sarebbe disposto a prendere in considerazione lo “switch” con un nuovo candidato (l’attuale vice Kamala Harris al momento è il nome più “gettonato”).
Il fatto è che, mentre i democratici discutono su chi deve candidarsi, dall’altro parte si parla di programmi, di cose da fare, di nomi che potrebbero occupare le caselle più importanti: un insieme di fattori che non può che rendere ancora più cospicuo il vantaggio di cui è accreditato Trump.
E quale momento è più opportuno della Convention in corso a Milwaukee per dare ancora più evidenza a tutto ciò? Lasciato il palcoscenico al proprio vice, James David Vance, Trump sta ogni giorno di più “delineando” il proprio mandato. Sul fronte della FED, ha dichiarato che non “manderà a casa” il Presidente Powell (la nomina del Governatore della Federal Reserve spetta al Presidente), quasi a confermare l’assoluta autonomia della Banca Centrale. Ha poi detto che, per quanto riguarda il Segretario al Tesoro, una “pedina” fondamentale per l’Amministrazione, vorrebbe Jamie Dimon, CEO di JP. Morgan, probabilmente la più importante (e influente) Banca americana, ritenuto un vero e proprio “guru” dalla “business community”. Spaziando alla geo-politica, si è lasciato andare a dichiarazioni che qualche perplessità (per non dire timore) ai mercati l’hanno fatta venire. Riferendosi a Taiwan, ormai un “simbolo” di libertà (almeno per l’amministrazione Biden)rispetto all’egemonia cinese, ha detto, senza mezzi termini, che (Taiwan) si è arricchita alle “spalle” degli Stati Uniti, che l’hanno protetta dalle mire cinesi. In altre parole, oggi Taiwan, se vuole avvalersi ancora della “protezione” americana, dovrà pagare (un concetto del tutto e per tutto simile a quello riferito all’Europa e alla Nato, la cui partecipazione ha un costo, sino ad oggi sopportato in gran parte dagli Usa, mentre gli Stati europei, sempre secondo “the Donald”, sembrano giocare a nascondino…). Aggiungendo che Taiwan dista ben 9.500 miglia dagli Stati Uniti, mentre è separata da sole 68 miglia dalla costa cinese. Come dire: ma chi ce lo fa fare di imbarcarci in un’avventura per un Paese così lontano (il Vietnam, in questo senso, è, per gli americani, sempre dietro l’angolo). Fatto sta che sono bastate queste affermazioni per gettare nel “panico” molti operatori, che hanno iniziato a vendere a mani basse i titoli TSMC, il maggior produttore mondiale di chip, e quindi fondamentale per molte società americane e europee operanti nel settore tech, soprattutto in ambito intelligenza artificiale. Da qui l’ondata di vendite che ha colpito, nella giornata di ieri, il settore, con titoli come Nvidia, ASML, Advanced Micro Device, Micron technology, etc, che hanno perso anche il 5, e oltre, per cento.
Giornata, come detto, pesante quella di ieri per il settore tech, con il Nasdaq che ha chiuso a – 2,9%, mentre ha retto il Dow Jones, in rialzo dello 0,59%.
Questa mattina “accusa il colpo” il Nikkei di Tokyo, in flessione del 2,36%, così come anche il Taiex di Taipei, anche lui in flessione di circa 2 punti.
Cercano il recupero Shanghai (+ 0,28%) e, a Hong Kong, l’Hang Seng, + 0,56%.
Sulla parità Mumbai.
Segnali positivi dai futures, segnalati ovunque in rialzo (Eurostoxx + 0,30%, S&P 500 + 0,43%, Nasdaq + 0,81%).
Petrolio in forte rialzo, con il WTI tornato oltre i $ 83 (83,69, + 0,91% questa mattina).
Gas naturale Usa a $ 2,044 (+ 0,25%, nel tentativo di “tenere” quota $ 2).
Oro sui massimi storici, ad un passo dai $ 2.500 (2.474, + 0,49%).
Spread a 128,9 bp.
BTP stabile, a 3,71%.
Bund 2.41%.
Oat Francia 3,07%.
Treasury 4,17%.
In ulteriore, lieve rafforzamento l’€, con €/$ a 1,093.
Leggero calo anche per il bitcoin, che rimane “aggrappato” ai $ 65.000 (64.969).
Ps: l’oro, da sempre, è simbolo di ricchezza e sinonimo di benessere. Come dimostra il valore di questi giorni, è, in termini di investimento, di grande attualità. Non va, però, dimenticato anche il suo forse maggior significato, con l’impiego nella gioielleria. In quest’ambito, l’unità di misura è il carato. Per esempio, nell’oro a 18 carati ci sono 18% parti di oro (corrispondenti al 75%) e 6 parti, in principal modo, di nickel e zinco. L’origine del termine carato va ricercato nel termine arabo qirat, che sta a significare “grano di carrubo”. Infatti, nell’antichità, si riteneva che i semi di questa pianta avessero lo stesso peso dell’oro, per cui venne adottata come unità di misura per piccole quantità di pietre preziose. E da lì all’economia il passo è stato breve (almeno per l’oro).